Sacro e profano sono inestricabilmente intrecciati sulle rive del Tara, torrente che scorre a pochi metri dall’Ilva di Taranto. Una comunità si incontra quotidianamente intorno alle acque ritenute taumaturgiche. Tante storie si raccontano sui loro poteri benefici, ma le misurazioni scientifiche non la pensano così, il fiume è inquinato così come tutto il territorio che circonda la fabbrica. A chi credere? All’esperienza empirica tramandata nel tempo, o ai valori raccolti dagli organismi di salvaguardia del luogo? Questo è solamente uno dei molti contrasti che Sattel e Bertin ci spingono ad esplorare, allargando gradualmente il campo dall’epicentro-fabbrica alla città, ai suoi quartieri popolari, all’umanità fragile che li abita. Le costruzioni antiche, le campagne, i rituali di capodanno ci parlano di una dimensione temporale perduta altrove, che continua a vivere a Taranto accanto al sogno ormai in frantumi della modernità rappresentato dall’Ilva. In questo andirivieni ascoltiamo le parole di chi cerca di rifarsi una vita dopo gli anni passati a respirare sostanze nocive, per poi tornare lungo il Tara, a contatto con quella che può sembrare ingenuità, ma che è in realtà la resistenza tenace di un senso possibile del mondo. In questo viaggio che è quasi un’inchiesta etnografica, i due registi non perdono la sensibilità per l’immagine, in particolare per gli elementi - naturali ed artificiali. Eccoci allora nelle profondità del fiume, cercando di carpire i suoi poteri nei colori cangianti che la luce mostra; eccoci nel ventre della fabbrica, dove la produzione dell’acciaio prende tinte da inferno sulla Terra. È ancora possibile un equilibrio tra esseri umani e natura? A Taranto è stato negato per molto tempo, ma qualcosa poi germoglia sempre di nuovo.
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