Quanti sono gli italiani che lasciano la casa natale per spostarsi in città più dinamiche e produttive? Milioni, prendendo in esame un fenomeno “ad ondate” cominciato già all’indomani dell’Unità e proseguito poi nel Novecento. Basti pensare - senza ripercorrere tutte le tappe di un vero e proprio esodo continuativo, acuito ciclicamente da fasi più intense - che negli anni del boom economico, tra la fine dei Cinquanta e i Sessanta del Novecento, il solo flusso migratorio interno al Paese, dal sud in direzione nord, ha coinvolto circa 10 milioni di individui. E anche dal settentrione si partiva, per l’estero: c’erano ad esempio i treni per la Svizzera e il nord Europa stipati di persone raccontati con poesia dal maestro Franco Piavoli, nel suo corto Emigranti (1963).
Oggi come ieri, la spinta a partire tocca molti individui. Oltre a mettere a fuoco le ragioni della scelta, il cinema consente anche di raccontare le riflessioni a lungo termine e gli eventuali turbamenti, di coloro che compiono questo passo. Talvolta intrecciando e illuminando questioni complesse, che affondano le radici in fattori identitari variegati, frutto di altre migrazioni, precedenti.
È il caso del documentario Hora, prodotto da Stefano Benni, che apre il sipario sui pensieri di Anastasia, una donna di origine arbëreshë, nata in Calabria, nel piccolo paese di San Nicola dell’Alto, e che da più di quindici anni vive a Bologna.
Diretto da Maria Alba e Graziana Saccente, è un viaggio a ritroso, che in 26 minuti ripercorre i km che separano le due case (più la terra d’origine familiare) della protagonista, che si interroga sulle proprie radici. Il classico viaggio estivo di tanti italiani che tornano al Sud, calamitati da tradizioni come la festa del patrono, come anche dagli affetti. Un percorso che anno dopo anno diventa occasione per un bilancio esistenziale.
Poi, una volta arrivati, per qualche tempo, in tanti paesini si rompe il silenzio tipico delle lunghe giornate di chi resta, per accogliere il controesodo di quei figli che si sono spostati per ragioni di studio, di lavoro, di aspettative sul futuro.
Per Anastasia questo ritorno è anche l’occasione di portare con sé un’amica, che nel film diventa interlocutrice e scintilla per evocare tanti ricordi d’infanzia e adolescenza. Su tutti la consapevolezza di essere orgogliosa della propria origine arbëreshë, anche grazie alla prospettiva acquisita nella grande città emiliana, dove la particolarità culturale e linguistica incuriosisce ed è vista come una ricchezza, mentre negli anni del liceo quell’eredità era stata anche stigma.
Il film svolge una duplice funzione per gli spettatori: mostra una vicenda simbolica per approfondire le sensazioni di chi vive in equilibrio tra luoghi differenti e al contempo può risultare l’occasione per colmare una mancanza di attenzione, nel discorso collettivo, verso fattori culturali significativi, nello specifico le tradizioni arbëreshë, che pur presenti nel nostro Paese, di solito risultano ignote ai più.
Una presa di coscienza, quest’ultima, che induce ad un ragionamento serio nei confronti della scuola, del mondo dell’informazione e, non ultimo, del ruolo della politica, che affrontano le questioni migratorie quasi sempre nell’ottica dell’emergenza e della contingenza, mentre andrebbero approfondite, studiate, spiegate, insomma: messe al centro della scena, in un’Italia che anno dopo anno va arricchendosi di moltissime sfaccettature culturali, che rischiano di non essere comprese anche per colpa dell’ignoranza storica che rende miopi.
Il viaggio in treno di Anastasia, così intimo, diviene dunque anche itinerario nel tempo, nella memoria, sia per la protagonista che per gli spettatori. E il rito della vestizione con abiti tradizionali diventa metafora del ritrovare la propria natura, rinascendo in un abbraccio materno troppe volte desiderato e rimandato durante gli anni trascorsi lontano.