La rivoluzione non è un pranzo di gala: la nostra riflessione sulla vicina fine del monopolio SIAE in Italia.
Marzo 2017. Nella scuola elementare di Mezzago (Mb) si svolge il saggio musicale di fine anno. La Siae si presenta all’appuntamento e chiede il pagamento dei diritti d’autore dei brani utilizzati per il piccolo spettacolo. Non è che l’ultimo caso emblematico, di una lunga serie, che mostra con tutta la sua assurdità le conseguenze a cui ha portato il monopolio Siae nel nostro Paese e contemporaneamente tutte le contraddizioni che derivano dall’applicazione delle normative sul copyright: un sistema di tutela arbitrario, poco utile ai nuovi autori e che soffoca la diffusione di cultura nelle sue forme più spontanee. Ricordiamoci del caso dei bambini di Mezzago, colti in flagrante a commettere un reato che non capiranno mai: un conto è essere accusati di un furto di caramelle, tutt’altra cosa è comprendere in che modo si reca danno a un autore (magari già morto) eseguendo un suo brano, evidentemente senza alcun lucro, di fronte ai propri genitori e nonni.
Su altri ordini di grandezza, l’inadeguatezza a cogliere le sfide del presente di una società vetusta come la Siae è evidente, e i limiti imposti dall’ente si scontrano con il copyright. L’estate 2017 verrà ricordata dagli addetti ai lavori come quella della polemica cavalcata dal produttore e cantante Fedez contro le istituzioni. Negli ultimi tempi infatti, sono sempre di più le voci del panorama creativo che affermano quanto la fine del monopolio Siae sia sempre più necessaria e imminente, anche alla luce nella normativa europea.
Siamo d’accordo. La Siae mostra oramai da troppi anni tutti i suoi limiti, i suoi paradossi, come, non da ultimo, l’obbligo di pagare una tassa sul supporto fisico o digitale. Questo vuol dire che è sempre necessario pagare una tassa su un cd o altro device perché la Siae da sempre per scontato che lo utilizzerai per metterci dentro dei brani da loro protetti. È ormai evidente che oggi la situazione è diventata insostenibile, per molte ragioni. Perché la pratica attuale non tutela minimamente gli autori indipendenti, né tantomeno genera per loro utili significativi. Perché non è concessa, in alcun caso, qualsivoglia forma di riutilizzo creativo non commerciale delle opere. Perché paradossalmente per un autore indipendente comporta più ostacoli che vantaggi, limitando ad esempio il passaparola digitale, cioè la possibilità che sempre più persone possano diffondere, riutilizzare l’opera creativa stessa, in altre parole aiutare, senza fine di lucro, la sua stessa distribuzione online e per le strade.
Ci fa piacere osservare quindi che la contraddizione stia raggiungendo il punto di non ritorno. E siamo molto curiosi di vedere come le istituzioni, nazionali ed europee, risponderanno a un cambiamento epocale in corso, figlio anche dell’evoluzione tecnologica. Un cambiamento che, a nostro avviso, sta mettendo in seria discussione non solo le normative di gestione del diritto d’autore, bensì l’immaginario stesso che sta dietro al concetto di copyright. Proprio per questa ragione è necessario capire in quale direzione si va costruendo un’alternativa efficace ai modelli attuali.
La richiesta di Fedez (e con lui tanti altri) è molto semplice e si può riassumere così: “il monopolio Siae non funziona più, quindi mi affido a una collecting society privata (in questo caso Soundreef); perciò esigo che sia quest’ultima, e non Siae, a gestire gli introiti dei miei concerti”.
Dal canto nostro, invece, ci chiediamo: siamo sicuri che la strada delle collecting society private sia la soluzione a problemi che riguardano, come abbiamo visto, non solo la gestione economica del diritto d’autore, ma la salute stessa del panorama culturale di un Paese?
In Italia il vento delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni soffia già da molto tempo, toccando anche quei settori che riguardano necessità e beni primari, dalla gestione delle risorse idriche alle politiche energetiche. Proprio come per quanto riguarda la cultura, si tratta di ambiti in cui le dinamiche di fruizione devono confrontarsi con il problema dell’accessibilità, che è tutto interno a un’importante questione di cittadinanza.
Così come per l’acqua e l’energia, anche la cultura ha bisogno di una sua smart grid (cioè una rete di diffusione intelligente) per diffondersi senza dispersioni o ingorghi. Perché sia davvero smart, non è sufficiente che la rete abbia più di un gestore, ma deve coinvolgere realtà diverse, vicine ai territori e ai fruitori del bene interessato, che sia l’acqua, la corrente elettrica o un bene altrettanto fondamentale come la cultura.
In molti dei casi, oltre che alimentare un legittimo dubbio politico sull’efficacia ed autoregolamentazione del mercato libero, le liberalizzazioni hanno di fatto comportato maggiori costi per le persone, soffocando ogni tipo di progetto indipendente e passaggio da un monopolio spesso assopito a oligopoli fortemente aggressivi.
Non vediamo sinceramente per quale ragione il settore culturale e delle opere creative possa essere a maggior riparo da questi rischi. Anzi, per certi versi la produzione culturale si trova in un pericolo ancora maggiore. Sappiamo bene qual è la logica che orienta l’industria culturale, dal cinema alla musica e all’editoria: tutto il potere ai più forti, nel nome del profitto, ciò che spesso conduce al proliferare di una “cultura a consumo” senza alcun margine di innovazione, di sperimentazione o di messa in discussione della realtà in cui si esprime.
Sebbene quindi esperienze come Soundreef siano assolutamente interessanti, soprattutto in chiave di rottura con la fase odierna, crediamo sia vivamente importante fare un passo di gran lunga più in avanti. Che si tratti di riformare il monopolio o di reinventare le logiche del mercato culturale, la vera sfida passa per un drastico ripensamento del concetto di diritto d’autore. Sia ben chiaro, non vi è alcun tentativo di sabotaggio rispetto al concetto di tutela dell’opera creativa. Tuttavia tale tutela ha senso nei soli casi in cui un’eventuale violazione del diritto d’autore metta in discussione l’autonomia dell’opera stessa o venga fatto per operazioni di tipo commerciale. In quest’ultimo caso è assolutamente giusto porre dei paletti e dei confini che tutelino le opere creative.
Ma esiste tanto, tanto altro. La cultura non è solo profitto, la cultura è anche e soprattutto messa in discussione, ibridazione, evoluzione. Sotto questa luce la cultura è di tutte e tutti, deve essere a disposizione di tutte e tutti. Non si tratta solo di un passaggio retorico, ma di una necessità concreta e urgente in questa fase di forte crisi degli immaginari collettivi. Per questa ragione noi crediamo che le licenze Creative Commons siano una risposta efficace, una strada da intraprendere. Proprio perché riescono oggi a reinventare, senza sopprimerlo o indebolirlo, il concetto stesso di diritto d’autore, con l’obbiettivo di tutelare l’opera quando è strettamente necessario, ma di liberarla e metterla a disposizione di tutte e tutti quando questo è possibile.
Sotto questa ottica, Patamu rappresenta un esempio molto interessante. Cercare nuove strade, nuovi modelli, mettendo al tempo stesso in discussione il concetto classico del copyright. Anche perché è chiaro da tempo che Creative Commons non significa per forza gratuito, significa invece pensare alla sostenibilità di ogni autrice o autore in chiave evolutiva, costruendo un’economia virtuosa proprio laddove agisce quella falsa opposizione, costruita ad arte, fra “a pagamento” e gratuito.
In altre parole, siamo di fronte ad un cambiamento epocale. E come spesso accade in questi casi, ci troviamo davanti a un bivio. E non ci stupisce d’altro canto che siano artisti come Fedez, “rivoluzionario con il Rolex” come lui stesso ama definirsi, a farsi bandiera di un falso cambiamento che rischia invece di essere un processo involutivo, un mero adeguamento tecnologico ai modelli di business culturale che già esistono e di cui conosciamo bene le conseguenze. Soprattutto ai danni dei progetti creativi indipendenti.
Torniamo, dopo queste riflessioni, alla vicenda che abbiamo utilizzato come esempio di apertura. Come immaginiamo il domani che ci aspetta? Quale strada vogliamo intraprendere? Vogliamo un futuro in cui si rischia che siano diverse major agguerrite a ispezionare e multare i bambini di una scuola elementare oppure siamo capaci di immaginare un mondo dove finalmente i bambini insieme agli adulti possano liberamente sperimentare la propria creatività?
Se la risposta appare tanto semplice ed ovvia, forse un motivo ci sarà.